L’importanza della dieta nella cura dei pazienti affetti da tumore
Nella letteratura scientifica sta crescendo la consapevolezza dell’importanza della dieta nella cura dei pazienti affetti da tumore. Una recente statistica condotta su degenti in cura al Karolinska Institute mostra che una dieta appropriata subito dopo l’intervento accelera i tempi di guarigione e determina un risparmio nelle spese di gestione del paziente.
Un altro studio pubblicato da Plos One su un campione di 522 pazienti oncologici dimessi dopo un intervento mostra che la qualità della dieta e l’attività fisica diminuiscono il rischio di morte prematura. Inoltre, è ormai assodato che certi cibi possono contrastare efficacemente l’insorgenza di metastasi o recidive, a tal punto che esistono linee guida alimentari codificate sia nel “Codice europeo contro il cancro” sia nel documento del “Fondo mondiale per la ricerca sul cancro“.
Ci si chiede allora se gli ospedali tengano conto di queste conoscenze nella preparazione dei pasti e nei suggerimenti inclusi nelle lettere di dimissione. L’esperienza di alcuni pazienti curati in vari centri italiani è che i piatti, spesso forniti da ditte esterne, non sono preparati tenendo conto delle linee guida. Inoltre, le lettere di dimissioni non contengono alcuna indicazione su cosa è bene mangiare o non mangiare appena usciti dall’ospedale.
Questa impressione è confermata da Franco Berrino, ex direttore del Dipartimento di Medicina Preventiva e Predittiva dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano: «In generale, la classe medica non ha una preparazione adeguata sul ruolo della dieta per favorire la guarigione e prevenire l’insorgenza di recidive. In particolare, un giovane appena laureato in medicina non ha studi del genere alle spalle. Questa mancanza di cultura si riflette in una bassa attenzione alla dieta e alle linee guida alimentari all’interno degli ospedali».
Berrino nota anche che, «se da una parte la ricerca individua un nesso tra l’eccesso di zuccheri e la crescita dei tumori, in quanto l’aumento di insulina che ne deriva favorisce la divisione cellulare, negli ospedali vengono somministrati cibi che fanno molto aumentare la glicemia, ovvero il contenuto di glucosio nel sangue» e cita alcuni esempi: «Uno dei pasti tipici degli ospedali è il prosciutto con il purè di patate: grave che si ignori che il secondo aumenta la glicemia e il primo è altamente sconsigliato dalle linee guida del Codice europeo contro il cancro, come tutte le carni lavorate. Per non parlare del fatto che nelle corsie di ospedale si trovano distributori di bevande zuccherate, altro alimento sconsigliato nella prevenzione. Succede perfino qui nell’Istituto Tumori di Milano. Tra l’altro bisognerebbe dare ai malati l’esempio e aiutarli così a capire cosa non dovrebbero fare dopo le dimissioni».
Secondo Berrino bisognerebbe anche evitare il pane bianco e le farine raffinate: «ciò non avviene per una certa inerzia delle amministrazioni degli ospedali, che sperano di risparmiare affidandosi a ditte esterne le quali non hanno alcuna conoscenza di come la dieta possa aiutare il malato. Di fatto, però, risparmierebbero molto di più con diete corrette e calibrate: come mostrano vari studi, queste riducono i tempi di degenza e quindi i costi dell’ospedale».
Le eccezioni, come sempre, non mancano: «Ci sono ospedali come il Policlinico San Donato di Milano o come il Policlinico Sant’Orsola di Bologna o l’Ospedale di Mantova i quali hanno intrapreso una strada differente, che tiene in conto le linee guida del Codice europeo» conclude Berrino.
È quindi importante capire meglio la politica in fatto di alimentazione di questi ospedali dalla voce diretta di coloro che la stanno mettendo in atto. Livio Luzi, responsabile dell’area Endocrinologia e malattie metaboliche al Policlinico San Donato e Direttore del comitato scientifico Progetto EAT Alimentazione sostenibile, dice: «Che ci sia poca attenzione all’alimentazione dei malati è provato dal fatto che spesso negli ospedali si trova malnutrizione, soprattutto nel caso di anziani, di pazienti oncologici, o di pazienti con chirurgia intestinale maggiore, che vedono quindi ancora di più allungarsi i tempi di degenza. Noi ci impegniamo perché all’entrata i pazienti vengano visti da un nutrizionista-dietista, o ricevano indicazioni dietetiche dal personale del reparto. In questo modo individuiamo carenze o eccessi e formuliamo indicazioni dietetiche importanti non solo durante la degenza ma anche dopo la guarigione. Nella lettera di dimissioni includiamo almeno alcune indicazioni alimentari sulla base della diagnosi e del decorso della malattia. Nei casi di obesità-diabete, neoplasie, interventi di chirurgia maggiore, pazienti in rianimazione, i suggerimenti dietetici sono basati sulla misurazione del dispendio energetico mediante calorimetria indiretta».
In particolare Luzi ha introdotto nel percorso diagnostico terapeutico calorimetri per la misurazione del consumo di calorie. Sulla base dei dati acquisiti, al San Donato sono così in grado di calibrare le diete nella degenza dando, se necessario, indicazioni dettagliate alle ditte che forniscono i pasti. «Sulla figura del nutrizionista-dietista bisogna notare che esistono anche figure professionali non sanitarie (laurea magistrale in scienze agro-alimentari), che non possiedono le competenze per operare in ambiente ospedaliero. Noi utilizziamo altre figure, specialisti che hanno anche conoscenze mediche come biologi nutrizionisti o dietisti, oltre ai Medici Dietologi» fa notare Luzi.
Nell’Azienda ospedaliera-universitaria Policlinico di Sant’Orsola di Bologna c’è un’analoga consapevolezza delle potenzialità di una dieta ottimale, come spiega Marco Storchi, direttore dei “Servizi di supporto alla persona“: «mentre gran parte degli ospedali compra menù già confezionati e uguali per tutti i pazienti, noi abbiamo mantenuto le cucine sotto il nostro controllo e abbiamo lanciato il progetto “Crunch” per unire cucina, ristorazione e nutrizione. Un team di dietisti e cuochi, coordinato da un nutrizionista esperto in collaborazione con la Dietetica Clinica e i medici delle diverse Unità Operative, provvede al miglioramento della dieta del paziente agendo sulla componente nutrizionale, sul gusto del piatto e sull’innovazione delle ricette. Grazie a queste strategie non solo riusciamo a essere più competitivi economicamente di un’eventuale gestione esterna, ma offriamo un servizio di migliore qualità e otteniamo benefici per i pazienti, che poi si traducono in risparmi ».
Secondo Storchi il contesto dell’ospedale, ovvero Bologna, una città di grande cultura gastronomica, ha favorito una gestione attenta alla dieta. «I malati sono più esigenti e si rendono conto dell’importanza dell’alimentazione: ciò è stato un grande stimolo per noi. Per i pazienti oncologici abbiamo ridotto gli alimenti di origine animale a favore dei vegetali e dei legumi. In più abbiamo realizzato alcuni studi interni, per esempio uno riguardante i pazienti disfagici, cioè che hanno difficoltà a deglutire, tra i quali vi sono anche pazienti affetti da tumore. Questi pazienti, che hanno caratteristiche di particolare fragilità, sono costretti a nutrirsi di cibi frullati o morbidi e, a causa di ciò, spesso non riescono a mangiare le stesse quantità degli altri, motivo per il quale sono spesso a rischio malnutrizione. Noi non ci limitiamo a frullare il pasto, come fanno molti ospedali, ma abbiamo reingegnerizzato il processo produttivo per offrire contenuti nutrizionali e apporti calorici in linea con i Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana (LARN) anche a fronte di minori quantità. Alimentare i pazienti disfagici in modo corretto significa accelerare il loro processo di guarigione».
«Noi invece abbiamo attivato un progetto denominato “Chef in ospedale”» racconta Consuelo Basili, direttrice del Presidio Ospedaliero di ASST Mantova «una biologa nutrizionista e uno chef stellato supportano il personale della cucina ospedaliera in tutte le fasi principali, dalla formulazione dei menù alla preparazione dei pasti. Questo lavoro di contaminazione culturale tra cucina collettiva ospedaliera e alta ristorazione ha portato a rivisitare alcuni piatti classici dei menù ospedalieri, nella consapevolezza che una dieta sana permette di guarire più rapidamente. Così rendiamo il purè di patate più sano preparandolo con brodo di verdure fresche senza l’uso dei fiocchi, che causano un aumento del picco glicemico, e senza il burro. Il grande punto di forza dell’Ospedale di Mantova è possedere una cucina interna a gestione diretta e poter intervenire sull’acquisto delle materie prime. Appositi capitolati di gara ci aiutano a tutelare la qualità degli alimenti e la composizione dei menù. Se un piatto sano e anche buono si hanno maggiori probabilità che i pazienti continuino a mangiarlo anche fuori dall’ospedale. In questo modo avremo contribuito a quel cambiamento dello stile alimentare che influisce sullo stato di salute. Con questo spiritoo abbiamo richiesto la sostituzione delle bevande zuccherate con acqua e altre bevande senza zuccheri aggiunti. Abbiamo anche intrapreso una campagna informativa e formativa sui corretti stili alimentari rivolta a pazienti e dipendenti e a breve verrà attivato un ambulatorio di medicina integrata rivolto alle donne affette da tumore per il controllo nutrizionale durante il periodo del follow up».
La scarsa attenzione agli effetti della dieta avviene in un contesto storico nel quale alcuni chef diventano popolari proponendo ricette d’avanguardia estremamente raffinate. Esiste perfino una nuova “scienza”, la “neuro-gastronomia“, che si avvale delle neuroscienze per comprendere come meglio presentare un piatto. Tutto ciò stride con la situazione negli ospedali, dove il “mangiar male” è considerato un fatto normale, con il quale bisogna convivere. Questa contraddizione profonda in seno alla nostra società è necessariamente destinata a esplodere man mano che sempre più pazienti ne prenderanno coscienza.
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